La storia della studentessa modello che si laurea in anticipo, fa l’influencer ed è felice del suo perfezionismo ha scatenato un’ondata di contestazioni e una conversazione online divisa tra chi la critica e chi invece pensa che sia bravissima.
Lascerei in pace quella studentessa per provare a capire cosa ci dà fastidio della sua vicenda, ovvero una società che esalta quel modello e i media che ne amplificano il valore.
Liberi di scegliere
Se una persona vuole lavorare e studiare per raggiungere il massimo sacrificando tutto il resto della sua vita, a un certo punto farà i conti con le proprie carenze emotive, con l’incapacità di gestire una relazione o un fallimento. O forse no, tutto dipende dalla struttura personale che quella persona sarà riuscita a costruire.
Chi non condivide quel percorso fa bene a rivendicare il “perder tempo”, a fare le esperienze diverse, anche quelle che non c’entrano nulla con il curriculum, ma che fanno tanto soft skills. E a non pensare solo in termini lavorativi, ma a come vogliamo sentirci nei confronti della vita.
I ventenni stanno demolendo la mentalità tossica della produttività costruita dai cinquantenni, nel momento in cui non accettano di essere trattati male sul luogo di lavoro, di non essere riconosciuti per gli sforzi e i meriti, di non essere pagati a sufficienza, e se ne vanno.
Per i ventenni stare bene psicologicamente è importante tanto quanto stare bene fisicamente ed economicamente. E piuttosto rinunciano a qualche centinaia di euro in più sullo stipendio per vivere una vita più aderente a loro.
La competizione è utile per migliorare, ma non lo è se uccide i desideri, i piaceri, lo stimolo della sfida, per diventare il bisogno di superare gli altri al solo scopo di essere visti e ammirati.
A voler entrare nella filosofia di Alain De Botton, è un tentativo per essere amati. Perché questa società guarda solo ai primi.
Il primo della classe e la tossicità di certi esempi
Invito a leggere il post di Instagram dello scrittore Jonathan Bazzi “Il secchione terrorizzato che sono stato”.
Sono stato il primo della classe. Sempre. Al liceo, poi all’università. Media del 9 e mezzo alle superiori, poi 30 o 30 e lode agli esami. Dovevo esserlo, qualsiasi tentennamento mi risultava inaccettabile, vergognoso, fatale. Ho pensato di lasciare la scuola quando mi è capitato di prendere un 6 e mezzo, ho covato per anni la tentazione di strappare a morsi il mio libretto dopo che venne macchiato da un 28. Dunque conosco bene il sogno dell’eccellenza, della competizione con sé stessi e gli altri. Ed è una malattia, un’allucinazione malefica scambiata da tutti per trofeo, meraviglia. Prendevo i voti più alti ma ero senza dubbio il più fragile, sempre sul punto di andare in mille pezzi: avevo bisogno di quel piedistallo perché sentivo di non valere niente, perché dentro ero completamento cavo, disconnesso, vuoto. […]
La società della performance
Ci fanno credere che la vita sia una corsa per arrivare primi, ma questo è solo un pensiero derivato dalla società che produce e consuma e alla quale si lega il bisogno di misurare la performance.
Io non so com’era milioni di anni fa, quando arrivare primo su una preda significava assicurarsi la sopravvivenza, ma credo anche che ci si alleava molto di più per raggiungere quell’obiettivo insieme e non morire come collettività.
Al liceo, anche io volevo fare gli ultimi due anni in uno e andare subito all’università, perché non ero a mio agio con il mondo dei miei coetanei. I miei genitori non hanno minimamente preso in considerazione la smania adolescenziale di correre verso chissà cosa, bruciando tappe della vita senza un reale motivo se non la voglia di riempire un vuoto esistenziale che poco dopo si sarebbe ricreato di nuovo. Semplicemente sono quegli spazi dell’anima che si creano nella vita e che credi di dover in qualche modo riempire.
Ho capito che certi vuoti possono restare tali, e che se suoniamo bene dentro e perché siamo fatti di momenti pieni, gioie di vita, soddisfazioni e quei vuoti, quei fallimenti, quelle incomprensioni nostre. Non è che dobbiamo capire tutto tutto di noi. È più importante accettarsi.
Né primo, né secondo: seguire il proprio ritmo
Ognuno ha il proprio ritmo, c’è chi ce l’ha come quella studentessa e chi no. Ognuno ha il suo. Ma di certo credo che non ci sia un modello.
“Si impara per confronti, ma non tutti i modelli sono adatti a noi”.
Questa frase l’ha detta Anna Maria Bernini, ministro dell’università e della ricerca all’apertura di Elle Active! il forum su lavoro femminile organizzato dalla rivista Elle. Ed é la base su cui si poggia la mia idea dell’essere secondi come un ottimo modo di stare al mondo.
Il confronto è necessario per crescere, ma va visto rispetto a noi. Il paragone sullo stesso piano non funziona, il confronto, invece, tenendo conto di chi si è rispetto all’altro è un punto di partenza per riconoscere le proprie qualità. Il focus, però, va posto su di noi perché il modello non può essere ricalcato identico.
Non tutti vogliono o possono – per tantissimi motivi – essere primi, ma essere se stessi sì. Nessuno vuole vivere la vita di un altro. Nessuno vuole essere al posto di un altro, ma ciascuno nei propri panni con la possibilità di essere non la migliore versione di noi stessi, ma la versione di noi più autentica.
Essere il numero 2, potere e forza (senza classifiche)
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