Lo scrittore Paolo Giordano ha definito ossessione valutativa quell’obbligo che ci sentiamo di valutare tutto attraverso un giudizio o una classifica. Costretti, senza neanche rendercene conto, a essere misurati costantemente su qualunque cosa, abituati ormai all’idea che ogni nostra azione sia una prestazione.
Nell’editoriale del settimanale Sette, Giordano ci ricorda che il massimo del godimento lo proviamo quando qualcuno valuta qualcun altro e noi siamo gli spettatori, come accade nei talent, ma non solo: anche nella nostra vita quando a essere giudicati non siamo noi, ma assistiamo al momento del verdetto. Qualche volta quel momento si trasforma in una gogna, in una umiliazione, parola indicata dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara come azione utile alla crescita personale e a “raddrizzare” la condotta dei bulli.
Merito, giudizio e umiliazione
Stabilire un merito porta al giudizio, il giudizio talvolta porta all’umiliazione. A scuola, come al lavoro, ma la scuola come fa notare Giordano non fa altro che replicare lo schema che gli adulti mettono in atto nel mondo del lavoro. Umiliare non porta a un raddrizzamento comportamentale, a un miglioramento della prestazione, acuisce la rabbia o deprime e, in entrambi casi, non fa emergere il talento, la creatività, l’entusiasmo, la voglia, il desiderio, la visione dello studente o del lavoratore.
“Mi sono ritrovato a pensare insistentemente a tutto questo da quando si è deciso di dare risalto, fra le innumerevoli parole legate all’istruzione, proprio a “merito”. – scrive Giordano – Mi sono ritrovato a pensare, più precisamente, a quanto il giudizio incessante e la pressione selettiva che noi adulti subiamo c’entrino in uno strano modo vendicativo. La società che cerca una rivalsa contro i più piccoli. D’altra parte, se dai vent’anni non esiste più molta scelta, se da allora in poi si è dentro il mondo con la sua ossessione di giudizio, perché dovrebbe essere così anche prima?”.
Società della perfomance e… del giudizio
Non solo siamo la società della performance, ma anche la società del giudizio. E ci sembra così giusto giudicare qualsiasi cosa che diventiamo i peggiori giudici di noi stessi perché introiettiamo quell’ossessione e ci facciamo a pezzi. Mentre profili di psicologi su Instagram predicano l’assenza di giudizio e l’accettazione, sennò la nostra autostima muore. Ma se non ci giudichiamo noi, lo fanno gli altri, tanto vale che lo facciamo per primi su noi stessi usando un metro molto più duro.
Le scuole senza voto
È per questo che fanno notizia, sempre nell’abito dell’istruzione insieme al merito e all’umiliazione, alcune scuole che hanno abolito il voto. Quel numero che è la somma più anoressica e sbrigativa di una valutazione argomentata.
Lo ha fatto il liceo scientifico Morgagni di Roma, dove il voto è stato sostituito con un metodo di studio più collaborativo tra studenti e insegnanti. Lo fa dal 2017 la scuola primaria Messalongo di Verona. Il primo si ispira al metodo dei paesi nordici, la seconda al metodo Montessori. Il concetto è lo stesso “ingaggiare” parola tanto cara anche alla società della performance, gli studenti con la partecipazione, la curiosità e non con un numero atto a dirci in breve se ce l’abbiamo fatta o no. In questo articolo del Post si ripercorre i tentativi di abolizione nel corso degli anni.
Quanta tristezza in chi giudica umiliando l’altro. Giudizio non è esprimere un parere. E i modi fanno la differenza. Si parte dal riconoscimento che l’altro merita il rispetto delle nostre parole. E di fronte all’errore, secondo la sua natura e gravità, va cercato se possibile un rimedio. La sentenza lasciamola ai giudici che di mestiere stabiliscono una pena per chi ha agito contro la società. Ma se la società dobbiamo costruirla come a scuola, o dobbiamo farla prosperare come al lavoro, l’umiliazione pubblica è l’opposto della crescita. Post it da memorizzare: essere umile, una qualità in molte situazioni, e umiliato non sono la stessa cosa.
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