Quando lo stress lavorativo, aldilà del motivo, si prolunga nel tempo e non riusciamo con i nostri mezzi adattivi a cambiare le cose, licenziarsi è sempre la soluzione giusta? È una domanda a cui ho saputo dare una risposta solo un paio di anni fa.
La prima volta che mi sono documentata sullo stress lavoro correlato era il 2010. In quegli anni il tema era particolarmente sentito, la legge 81, che chiede al datore di lavoro di valutare lo stato di salute del lavoratore e anche lo stress correlato, risale al 2008.
Negli ultimi mesi, però, ne ho sentito parlare parecchio attraverso molte storie. Non che negli anni forse scomparso.
Stress lavoro correlato, burnout, work life balance erano presenti anche prima della pandemia. Ma gli ultimi due anni ci hanno reso meno tolleranti. Abbiamo scoperto di non avere tempo da sprecare per i malesseri vissuti nel luogo che dovrebbe darci da vivere.
E per luogo non intendo solo lo spazio fisico, ma l’azienda e le relazioni che viviamo anche da remoto.
Quando mi sono licenziata per stress lavoro correlato
Nel 2011 mi sono dimessa da un’azienda per stress lavoro correlato durato troppi anni e in seguito un percorso affrontato con il Dipartimento Stress e Disadattamento lavorativo del Policlinico di Milano. Lì ho capito quante differenze ci siano tra stress, burnout, mobbing: termini troppo spesso usati l’uno al posto dell’altro, ma le differenze sono tante.
Definizione di stress lavorativo, burnout e mobbing
Stress lavoro correlato: dal sito dell’Inail: “Nell’Accordo quadro europeo del 2004, lo stress lavoro-correlato (Slc) viene definito come “una condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro”. Lo Slc, pertanto, può interessare potenzialmente ogni luogo di lavoro e ogni lavoratore in quanto causato da aspetti diversi strettamente connessi con l’organizzazione e l’ambiente di lavoro”.
Burnout: si tratta di un tipo di stress correlato al lavoro, inizialmente relativo ad alcune particolari professioni soprattutto in ambito medico e assistenziale, ma oggi associato a molti altri lavori. Questa è la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “è una sindrome derivata dallo stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo. È caratterizzata da tre dimensioni. 1) sentimenti di esaurimento o esaurimento energetico; 2) aumento della distanza mentale dal proprio lavoro, o sentimenti di negativismo o cinismo legati al proprio lavoro; e 3) un senso di inefficacia e mancanza di realizzazione. Il burn-out si riferisce specificamente a fenomeni nel contesto occupazionale e non dovrebbe essere applicato per descrivere esperienze in altri ambiti della vita”.
Mobbing: in questo caso riporto una breve definizione di Wikipedia. “Mobbing o mobbismo (dall’inglese [to] mob «assalire, molestare»; quindi «molestia, angheria») [1] è un termine che in psicologia e nell’accezione comune indica una forma di abuso, ovvero un insieme di comportamenti aggressivi di natura fisica e/o verbale, esercitati da una persona o da un gruppo di persone nei confronti di uno o più soggetti”.
Stress lavorativo: dimettersi o no?
Dopo qualche anno dall’esperienza di stress, ho rivissuto alcune situazioni difficili nell’ambiente di lavoro. E questa volta ho riconosciuto subito il problema portadolo alla luce in azienda, ma soprattutto con una psicoterapeuta. Sono bastate poche sedute per capire che la prima volta mi ero dimessa, ma la seconda potevo risolvere la questione evitando l’unica soluzione che avevo conosciuto: ovvero andare via. Potevo restare. Le dimissioni sono la prima idea, ma non è detto che sia l’unica soluzione possibile o la migliore a seconda dei casi. Anche perché spesso non ci sono i presupposti per licenziarsi.
Ma si possono fare tante cose per provare a migliorare. Per esempio parlare, perché è giusto, e la legge lo chiede, che venga portata alla luce una situazione di stress che deve essere risolta. Le dimissioni sono liberatorie, benché possano spaventare, consentono di uscire dall’incubo una volta per tutte. Ti libera dalle cause, certo, ma se non lavori su come reagisci tu a quelle cause, è possibile che ti ritrovi di nuovo in contesti simili e vivi la delusione che il problema non sia stato risolto per sempre. Dimettersi non è l’unica soluzione.
È una delle e in alcuni contesti è anche l’unica cosa da fare, ma la differenza sta nel lavorare su di sé e chiedere che si facciano dei cambiamenti migliorativi anche nell’ambiente di lavoro. La soluzione è informarsi, e non pensare di essere gli unici. Infine, valutare unicamente su di sé e sulla propria esperienza facendosi aiutare da professionisti esperti.
Per chi volesse iscriversi, c’è una nuovissima newsletter della media company Will, che si chiama ChiaraMente. Dal 26 gennaio al 2 febbraio 2023 si può di partecipare rispondendo ad alcune domande che poi diventeranno argomento del podcast “Troppo poco”.
Da leggere: La vita morbida, scelta o necessità?
Foto di Max van den Oetelaar su Unsplash