La prima volta che ho scritto di stress lavoro correlato era il 2011. Ne avevo sentito parlare da poco, ma ne ho avuto esperienza per anni. Il tema oggi è diventato molto più complesso e i fenomeni legati al benessere sul lavoro si sono moltiplicati.
Riguardo al lavoro è come se ci fossero due strade parallele, uno riguarda l’occupazione e la precarietà. A giugno 2023 la disoccupazione italiana era al 7,4% scesa dal 7,06% con un’occupazione salita al 61,05% rispetto ai primi mesi del 2023: ad aprile era al 61%.
Ma l’Italia ha chiuso il 2022 con un tasso di occupazione tra i più bassi d’Europa. E mentre aumentano le polemiche sull’eliminazione del reddito di cittadinanza e il salario minimo, c’è che vive in ambienti tossici e si ammala di burnout.
Una strada tocca la base della piramide dei bisogni primari e una tocca chi lavora e guadagna (più o meno), ma non trova alcuna soddisfazione in quello che fa. La causa è l’eccessiva competizione e una certa cultura della produttività senza sosta diffusa e accettata negli uffici da nord a sud.
Quindi, una volta avuto il lavoro, tocca stare attenti a dove e come lo si fa. Ma le due strade che sembrano su due livelli diversi sono in realtà sulla stessa corsia.
Il frutto del nostro lavoro sempre più lontano da noi
Un articolo di Stefano Andreoli pubblicato sul Post il 5 agosto scorso, Terziario, triste e solitario, associa questa infelicità alla tipologia di lavori ormai sempre più diffusi e legati ai servizi. Ciò di cui oggi molti di noi si occupano: comunicazione, pubblicità, marketing è immateriale. Non toccando più con mano il prodotto realizzato con sudore e gioia ciò che facciamo ci sembra altro da noi, talmente lontano da non “esistere”.
I fenomeni che hanno interessato il mondo del lavoro dopo la pandemia e che ci ha portato ad assecondare la necessità di vivere un lavoro che sia in equilibrio con noi senza prevaricare il tempo del non lavoro, stanno trasformando il tessuto sociale.
Sempre meno persone sono disposte a lavorare in un luogo dove non sia contemplato lo smart working, e sempre meno giovani sono disposti ad accettare salari inadeguati rispetto al costo della vita. Ogni tanto qualcuno prova a sollevare la questione con video che diventano virali come l’ingegnera che ha denunciato un lavoro a 750 euro, molto più spesso si aderisce al fenomeno del quite quitting.
Calati in maniera perfetta nella società dell’immagine, i fenomeni come la great resignation e il quite quitting sono diventati tendenza e come tali o muoiono in fretta o diventano pop.
La great resignation in America è una tendenza che rischia di frenare perché, come spiega questo articolo di The Atlantic, The furure of great resignation, il potere contrattuale dei lavoratori sta diminuendo. Molte aziende hanno dato maggiori benefit, aumenti di salario o hanno migliorato il benessere nei luoghi di lavoro per evitare che i dipendenti si licenzino. Ma, a quanto pare, potrebbe non essere più così e i dipendenti che hanno necessità di vivere non rinunciano allo stipendio nonostante tutto.
I fenomeni del lavoro che diventano virali sui social
D’altra parte, invece, il quite quitting si sta trasformando in un fenomeno social: su Tik Tok sono in tendenza i video con hashtag “Lazy girl job”, ragazze che raccontano una loro precisa scelta lavorativa: ovvero il lavorare il minimo indispensabile per godersi poi il tempo libero. Si scelgono prevalentemente lavori da fare da remoto in orario d’ufficio dove però l’ufficio diventa una piscina, senza straordinari, senza esserne troppo coinvolti, senza reperibilità oltre il necessario.
Mettere al centro le persone è il modo che hanno le aziende per migliorare la loro produttività. Hacking Talent è una sturt up nata con lo scopo di aiutare le aziende a valorizzare i propri dipendenti, fondata da ragazzi giovani, stanchi di percorsi poco soddisfacenti. Nel podcast realizzato da Hypercast per Fineco, Se potessi avere, puoi ascoltare la storia della fondatrice, Federica Pasini. Non tutte, però, sanno vedere nei propri leader e nei processi interni modalità di lavoro inadeguate al benessere delle persone che a lungo andare risultano sfavorevoli alla produttività. Oggi le definiremmo in fretta tutte tossiche. Fanno parte di una cultura della produttività e della competizione radicata negli uffici dove, come ci fa notare Andreoli sul Post, rispetto all’edonismo della Milano da bere dove si lavorava per vivere, oggi s’é perso il vivere, come il giovane imprenditore che elargendo segreti sul successo vanta con orgoglio di lavorare sempre, di andare a letto presto e svegliarsi perso, perdendosi tutto il divertimento (anche del lavoro stesso).
Foto di Jordan Whitfield su Unsplash