19 agosto: Giornata mondiale della fotografia. La premessa è che non ho mai studiato la fotografia, non ne so molto tranne poche nozioni sulla regola dei terzi o sulle ore migliori per scattare. Poche informazioni apprese durante il mio lavoro da giornalista: piccoli corsi, studi fatti velocemente per necessità del momento. Ma poco importa perché la fotografia a me piace goderla più che farla. Qualche volta anche farla con una vecchia Sony alpha o l’iPhone.
Ma nel giorno in cui nel mondo si celebra la fotografia, tutta intera, di qualsiasi tipo, dalla eliografia su lastra di stagno sino alla mobile photography, voglio celebrare un fotografo in particolare: Robert Frank. E vorrei ricordarlo perché a farmelo amare è stato un grande amico appassionato di fotografia che oggi non c’è più.
Il suo lavoro, The Americans, è stato esposto nel 2017 a Milano in una mostra non troppo pubblicizzata. Ed è stata per me l’occasione di fare un viaggio attraverso gli Stato Uniti senza essere mai stata in quei luoghi.
The Americans, la verità sulla società americana
Nel 1955, Robert Frank ottiene una borsa di studio dalla Fondazione Guggenheim grazie alla quale intraprende il suo lavoro più noto che intreccia fotografia e sociologia: uno studio sugli americani ripresi nella loro vita quotidiana. Frank intraprende un viaggio durato circa un anno. Attraversa 48 paesi degli Stati Uniti e imprime nei suoi scatti volti, azioni, storie, amori, lavori, speranze, paure, pura realtà del popolo americano. Ne ricava circa 28mila fotografie. Di queste ne sceglie 83 che costituiranno il lavoro finale, The Americans.
Quando Frank presenza all’America il suo lavoro, viene rifiutato. Troppe regole sono state rotte per mostrare quel volto del paese attraverso la “non” tecnica dell’immediatezza. Ed è grazie a un editore francese se questo capolavoro di occhio sul mondo verrà mostrato per la prima volta in un libro. A scriverne l’introduzione è il suo amico Jack Karouac.
Il valore sociale di The Americans di Robert Frank
Perché mi colpisce quest’opera? In realtà tutte le opere, anche quelle cinematografiche di Frank hanno un unico comune denominatore: l’occhio sociale. È con questa lente che Frank osserva e ci fa osservare gli altri, la sua America che diventa anche la nostra quando ci fa esclamare: “sì, è proprio così”, mentre ci immergiamo attraverso le sue fotografie nella vita degli americani come l’abbiamo sempre immaginata. L’essenza del cowboy viene fuori non a cavallo mentre spinge una mandria al pascolo, ma poggiato su un sostegno di fortuna per la strada. Perché è lì che Frank lo vede. L’America dei bianchi e dei neri vista in bianco e nero nelle loro auto, sull’autobus, mentre ballano o vanno al lavoro. Il filtro di Frank si chiama verità. E si potrebbe trovare sui social se, aldilà della color più di moda, ci appropriamo dell’oggi nella sua purezza. Senza alcun fake. Questi potenti autori di ieri, Frank è morto a 94 anni nel 2019, sarebbero meravigliosi con gli strumenti di oggi. La sua è una documentazione puntuale, più che un documentario. Uno sguardo continuo che entra ed esce dagli occhi e dalla camera di Robert Frank per passare ai nostri occhi e al nostro sentire quelle vite e quelle storie imperfette. Come tali sono le fotografie, non a fuoco, irregolari, sfrontate e sbagliate e per questo potenti: perfetta rappresentazione di un popolo degli anni ’50. In movimento e in mutazione.
Dalla strada ad Harper’s Bazaar
Uno dei più grandi esponenti della street photography, è stato però anche tra i più apprezzati fotografi di moda. Ha lavorato per Harper’s Bazaar e contemporaneamente come reporter freelance. Una commistione strana e al tempo stesso formativa per un “documentarista” che ha reso il documentario non più racconto oggettivo, ma visione soggettiva del mondo in cui tutti troviamo una nostra rappresentazione.
La cover è uno screenshot di Google immagini