Se fossi su Instagram farei un sondaggio tra quelli che da piccoli sognavano di fare il giornalista: in redazione o l’inviato speciale? Io avrei senza dubbio scelto la seconda, anche se poi di fatto ho seguito la prima.
Ma tutti (o quasi) coloro che sognano di fare questo mestiere, sognano più precisamente di fare l’inviato.
Vittorio Monti, che l’inviato speciale l’ha fatto davvero, ha appena pubblicato un libro dal titolo rivelatore, Un panda estinto, il mestiere dell’inviato speciale (Giraldi Editore). Inviato del Corriere della Sera non nasconde i privilegi vissuti da inviato, ma anche la vita costantemente in giro, per cui quei privilegi erano la meritata conseguenza di una scelta professionale (e di vita).
Che bello usare la parola mestiere per parlare del giornalismo. So che ha un ché di antico, ma suona così bene. Indica un saper fare, una conoscenza pratica e tecnica di qualcosa che va realizzato in concreto a partire dalla mente. Parole che da volatili si fissano sulla carta o su un nastro registrato.
Non è solo un pensiero nostalgico, è proprio l’idea che confezionare un articolo o un servizio sia artigianato. In qualche modo lo è anche con internet e i social. Cambiano gli strumenti ma il mestiere è sempre fatto così: con artigianalità.
Vittorio Monti, invece, è figlio della Olivetti 22, come racconta nel libro. Una macchina da scrivere, un oggetto che ormai è solo nei musei, ce n’è uno a Milano tutto dedicato, o nei mercatini dell’usato.
Tra i suoi aneddoti molti insegnamenti utili a chi gira il mondo o a chi resta seduto alla scrivania. E poi una delle più belle descrizioni che si possano dare del giornalista:
“Nel giornalismo mandato in soffitta dall’elettronica, i giornalisti, in particolare i reporter che ho frequentato vagabondando per l’Italia e il mondo, erano tipi alternativi e trasgressivi, scapigliati, spesso trasandati e a volte screanzati, più anti che pro, non contro il sistema, ma contro certe regole del sistema. Degli atipici insomma. Strambi, strampalati, ma sempre creativi. A volte insopportabili, però mai banali”.
Una roba così ti fa innamorare di questo mestiere al punto da voler preservare questa figura (forse) ormai estinta. Poi ci sono tante piccole perle come questa:
“L’intervista non deve essere un pranzo di gala, con un ospite d’onore, servito e riverito. Piuttosto una sfida nella quale ha un ruolo anche la pazienza, la stessa del gatto con il topo”.
Una biografia, insomma, che sa anche di manuale di un certo giornalismo, sicuramente di quello dell’inviato, che però fa bene tutti:
“In ogni articolo, ti giochi tutto nelle prime cinque righe. Con il capoverso iniziale conquisti o perdi il lettore. L’attacco è il mezzo per dare subito un’emozione, più decisivo della stessa notizia. Avrei abbracciato Paolo Mieli, un fuoriclasse, quando sostenne che l’incipit deve catturare chi legge, arrivandogli al cuore. Soltanto dal secondo capoverso entra in ballo la notizia in senso tecnico. Nel mio piccolo, l’ho sempre pensato”.
Come inviato speciale oggi Vittorio Monti si definisce Un panda estinto, non lasciando molta speranza a chi ancora oggi sogna di fare l’inviato. Ma se era difficile allora, figuriamoci adesso che di inviati in giro per il mondo c’è sempre meno possibilità di mandarli.
Non credo sia semplicemente perché con la globalizzazione, internet e tutto il resto puoi avere le informazioni da ovunque (persino dallo spazio), ma è la difficoltà in cui versa l’editoria e il giornalismo, perché il racconto di prima mano, non c’è dubbio, è un’altra cosa. E sono certa che se il sistema informazione fosse sano, anche oggi ci sarebbero tanti inviati a raccontare ogni angolo del mondo, non più con la Olivetti, ma con lo smartphone in mano.
E c’è in questo portare alla luce un giornalismo antico, anche la bellezza dei titoli forti, evocativi e pensati per scuotere le coscienze più nel profondo come l’incipit di una sua inchiesta dedicata al degrado delle nostre acque e in particolare del fiume più lungo d’Italia, all’epoca costeggiato da lattine: “Il Po nasce dal Monviso, ma muore subito dopo”. Era il 1986 e la crisi climatica a trent’anni di distanza è più che mai urgenza.
Se vuoi leggere ancora Giovane, ibrido, precario senza tesserino
In cover Photo by Daria Kraplak on Unsplash