Parliamo di prodotti editoriali digitali, siti, blog, post social. Parliamone in generale, perché il tema di creare contenuti è un dilemma antico. Mi piacerebbe che fosse così: che la qualità salvi i contenuti e in fondo un po’ lo credo. Non ingenuamente: una base solida ti permettere di non prendere brutti tonfi. Ti fai meno male anche quando inciampi, insomma, se il tuo prodotto editoriale è sostenuto da contenuti belli da fruire.
Ma è chiaro che questo non basta nel momento in cui il business, invece, è sbilanciato verso i numeri. Sembra sempre più affascinante la quantità. E sembra sempre più sfigata la qualità. Come se chi si rifugia nelle parola dal significato sfaccettato: qualità, lo faccia perché non sa fare la quantità. Non sa fare i numeri. Peccato che fare i numeri non è opera di un genio, ma di un sistema. E molto spesso questo sistema fatto di algoritmi per lo più, la qualità non la conosce. Google sta diventando sempre più “sensibile” e “comprende” la qualità, ma il problema di fondo è la non trasparenza dei suoi meccanismi che ci impone di vivere in un sistema non alla pari. Tu fornisci le canzoni al jukebox, l’utente sceglie il genere musicale, ma è Google a decidere quale ascolterà.
Qualità o quantità, come creare i contenuti
Il dibattito stravecchio me l’ha fatto venire in mente il primo numero di The Rebooting, la newsletter personale di Brian Morrissay che è stato presidente ed editor in chief di Digiday, un media che si occupa di media. Per la verità l’ho scoperta grazie a un’altra newsletter dedicata al mondo dell’editoria e del giornalismo: Charlie, del Post.
Morrissay presenta la sua nuova creatura editoriale e cita 3 pregiudizi fondamentali da sapere prima di proseguire nella lettura e iscriversi alla sua newsletter: 1) l’autore preferisce i siti verticali ai portali generalisti; 2) gli abbonamenti sono una base migliore rispetto alla pubblicità (anche se chiaramente non è contrario, anzi i due sistemi possono coesistere); 3) “La tendenza più interessante nei media ora è verso il focus e la qualità dopo un periodo di follia di algoritmi, di feed e ottimizzazione”.
Ognuno di questi punti merita un dibattito a sé, ma andiamo al sodo: puntare sulla qualità sarebbe una tendenza. Anche se non ancora così evidente. Evidente è, invece, “la follia degli algoritmi, dei feed e dell’ottimizzazione”, perché così è quando il modello di business punta tutto sul numero di visualizzazioni, ma diciamo pure numeri in generale perché è più importante che tanti occhi distratti guardino il prodotto sperando che a qualcuno cada l’occhio, piuttosto che scegliere il pubblico di quel sito o profilo con caratteristiche precise che rappresenta una community di valore.
Il problema della qualità dei contenuti sta nella difficoltà di misurarla: chi decide cos’è la qualità? Quali sono i parametri per definire un contenuto di qualità? Nello spettacolo, è un contenuto di qualità anche il gossip confezionato per bene. Cioè con la giusta ironia se serve, senza errori, senza refusi se è scritto, con belle immagini se video ecc… È chiaro che la quantità è più semplice perché misurabile, ma il suo difetto è l’infinito. La qualità ha la sua “opinabilità”, la quantità il fatto che quando arrivi a 100, devi arrivare a 200, arrivati a 200, devi raggiungere i 300. E così via.
Il mondo dell’equitazione è una metafora di vita. Per staccare al galoppo, non puoi far trottare il cavallo a 200 all’ora, ci vuole calma, serve metterlo in ordine, tenerlo sulla pista, avere il giusto assetto e poi dargli il comando con decisione. Io che sono agli inizi dell’equitazione, trovo questo processo difficilissimo. Capisco il meccanismo, ma non è facile quando hai un essere straordinariamente potente sotto di te, di cui conosci teoricamente la reazione, ma non sai se avrà esattamente quella.
La dittatura degli algoritmi
Ad ogni modo la metafora: la dittatura degli algoritmi ti fa andare a una velocità che diventa via via insostenibile. Non riesci a staccare al galoppo aka far andare il tuo prodotto editoriale al ritmo di crescita sostenibile e con i risultati che cerchi, se tutto il resto è in confusione. Rischia di saltare qualche punto dell’ingranaggio. Oltre al fatto che i numeri non sono lineari. Hanno spesso battute d’arresto, rallentamenti, se non addirittura tornano indietro e a deciderlo sono gli algoritmi dei motori di ricerca o dei social.
La soluzione è una decisione: dargli un po’ meno potere. Siccome io sono dalla parte editoriale e non da quella del marketing, mi dico che basta opporre una minima resistenza allo strapotere dei numeri, ma questo è un fatto di etica che si scontra con il profitto. Il profitto è cosa buona e utile, non una cosa sporca. Chiaramente. Morrissay fa notare alcuni esempi di siti e media che nel creare contenuti hanno giocato la carta della qualità volando talmente alto da chiudere. Quindi (forse) anche la qualità ha i suoi limiti.
Ma il trend è questo: l’apprezzamento sempre maggiore e la diffusione delle newsletter (per lo più tematiche) e dei podcasting, prodotti più curati dagli editor, meno generici e più focalizzati. Morrissay promette di indagare ancora sul successo di questo tipo di contenuti che definisce “media artigianali”. Ma da sempre si dice che fare i giornali è un lavoro artigianale, per cui non stupisce che l’artigianalità possa funzionare anche per creare contenuti digital. In attesa con curiosità che Morrisay ci fornisca altre sue nuove riflessioni.